Il paesaggio attraversa l’uomo

Oggi è difficile intervenire e fruire adeguatamente del paesaggio, difficoltà che sta proprio nella definizione a priori dello stesso, nell’incapacità della società di inglobarlo nel concetto di proprietà collettiva, nella mancanza di rispetto molte volte per qualcosa che non si sente proprio, o ancor di più nella concezione errata della funzione dello stesso nella vita dell’individuo.

Oggi molto spesso si tende  ad erigere un muro con il contesto di cui facciamo parte, poiché nonostante ci appartiene quale elemento della collettività, quasi sempre per incapacità tecniche delle pubbliche amministrazioni, piuttosto che del senso di isolamento del cittadino, situazioni che portano l’individuo ad isolarlo, all’impossibilità di identificarsi con quel “pezzo di città” che gli appartiene ma non sente proprio, da cui deriva l’atteggiamento di disinteresse, di negligenza e non cura di quel pezzo della collettività.

Proprio perciò, oggi è necessità sempre più sentita dagli studiosi, ricercatori, ambientalisti, ecologisti, psicologi e sociologi, tecnici (architetti e paesaggisti) definire, tutelare, intervenire ma soprattutto comunicare il paesaggio.

<<Perché insistere sul concetto di paesaggio, sulla sua mutevolezza negli apparati disciplinari e allo stesso tempo sulla sua relativa solidità nel senso comune? Non sarebbe meglio aprire il discorso con una definizione, ad esempio quella della Convenzione Europea del 2000, «Il paesaggio è una parte del territorio così come è percepito dalle popolazioni, (…) »? La risposta sta proprio nell’importanza della gente, del “senso comune”, in qualsiasi politica che riguardi il territorio, il suo aspetto visibile o percepibile e quel qualcosa di più, di molto di più, che è il paesaggio.>>[1]

Questa definizione che rimanda a innumerevoli riflessioni sul concetto di paesaggio oggi, reinterpretato in chiave attuale, dal punto di vista giuridico (come enuncia la Convenzione Europea del paesaggio) è solo un punto di partenza per la ricerca del significato intrinseco che per secoli, a partire dal ‘500, sembra aver affollato le menti dei più grandi studiosi che hanno parlato di paesaggio.

La definizione che la Convenzione Europea dà, del concetto di paesaggio (di cui sopra) continua precisando “(…) il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, è proprio questa la chiave interpretativa per comprendere il paesaggio, l’importanza dell’azione dell’uomo e della sua interazione con la natura, lo spazio fisico, l’ambiente, ma anche l’osservazione determina la percezione che la comunità e l’individuo hanno dello stesso.

Il paesaggio ha origine dall’osservazione, un individuo che guarda il paesaggio lo interpreta, si immerge in una dimensione riflessiva delineando attraverso lo sguardo, determinati ideali e modelli. Il paesaggio non è mai identico alla natura, poiché caratteristica della natura è l’essere assoluta, non si crea, al contrario del paesaggio che è frutto della creazione naturale e umana, in cui si può intervenire per mano dell’uomo, in cui anche il tempo e la storia possono influenzarne l’immagine.

Il paesaggio quindi deve essere interpretato nell’ottica del divenire, a cui bene si accosta il termine filosofico presocratico della  Physis, il concetto del “tutto scorre” in cui vengono abbandonati i limiti della mera definizione per aprirsi verso un flusso ininterrotto di esperienze volte ad esplorare nuove prospettive in cui l’uomo, le relazioni, il tempo e lo spazio, la natura fissano un’immagine attuale che ne svela l’identità, che muta già nell’attimo in cui ne è stata fatta esperienza.

L’esperienza del paesaggio, che ogni individuo a suo modo fa interiormente, è leggibile attraverso la logica “dell’accadere” che determina l’universalità del paesaggio, nella sua concezione univoca e molteplice, in cui l’uno si compenetra nel tutto inscindibilmente, rimanendo elemento unico di quella identità che ne caratterizza l’essenza.

[1] P. Baldeschi, Paesaggio e Territorio, Editore Le Lettere, 2012, p.10.

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