D come design, D come donna : Dorothy Draper

Riuscire ad arredare uno spazio vuoto, secondo i principi del minimalismo in cui spazi puri, colori neutri, logiche razionali, sono spesso abusati leitmotiv di monotonia creativa, oggi facilmente applicabili e forse troppo esasperati nel concetto di riduzione  e contrazione della creatività, col rischio di creare spazi asettici, impersonali e freddi.

Studiando il design e l’arredamento di interni, spesso mi sono trovata ad analizzare il lavoro di grandi maestri, progettisti, designer, tutti formatisi secondo le logiche di pensiero del loro tempo e nonostante l’interesse destato dai loro progetti e dalle loro produzioni, mai nessuno ha attirato la mia attenzione più di Dorothy Draper, la pioniera del mestiere di interior designer.

Nata nel 1889 a Tuxedo Park, una comunità molto privilegiata di New York, non ebbe una formazione tecnica da architetto o designer ma il suo interesse per il design di interni, la sua curiosità e la possibilità di sperimentare all’interno di una vivace comunità, le permise di acquisire i primi incarichi che divennero una tela da dipingere con la sua creatività innata.

Dorothy Draper è riuscita a declinare il colore e il decorativismo nell’arredo di interni, forse in una concezione troppo estroversa, sullo sfondo di un’epoca, i primi anni ’30 del ‘900, permeata dai principi di essenzialità di Mies Van De Rohe, dagli spazi neutrali e contemplativi del “Less is more“, della sua architettura “pelle e ossa“.

La filosofia di Dorothy Draper sembra contrapporsi proprio a questo principio, nella sua “Architectural Clearing House“, la prima compagnia di interior design, oggi meglio conosciuta come “Dorothy Draper & Co“.

Il suo Barocco Moderno, in netta opposizione alla fredda composizione cromatica di spazi e arredi, in cui i colori neutri come grigio, beige, bianco e nero, sembrano banditi, in realtà diventano felici declinazioni di una tavolozza cromatica estrosa ma mai esagerata, pensata per fondersi con le geometrie di forme regolari e permeata sui tessuti a stampa floreale tipici del suo “stile”. Nei suoi ambienti non mancavano mai gli specchi, anche molto grandi, che utilizzava come escamotage per dilatare gli spazi, evitando quindi la percezione del “troppo pieno“.

La sue esuberante creatività, è una estensione di una interiorità che traduce le emozioni nella trasposizione decorativa del colore, come strumento per trasmettere felicità, su tessuti e trame perfettamente integrate alla regolarità del polimorfismo geometrico, accuratamente progettato nell’ottica di un decorativismo senza precedenti.

Rivisita i canoni classici, mescola alle forme pure dettagli art decò e reinterpreta gli elementi decorativi tipici dello stile vittoriano, innovando in un’epoca in cui il decorativismo aveva perso significato.

Il suo processo creativo di progettazione di interni, si modificava in base alla funzione dell’edificio su cui lavorava, che fosse residenza privata o di uso pubblico, ma non solo, il suo modo di leggere lo spazio cambiava anche in base all’uso delle stanze, in particolare prediligeva spazi più gioiosi e vivaci per le sale da pranzo, mentre creava intimità per le camere da letto.

Il caos nel progetto non era contemplato, a prima vista gli ambienti arredati da Dorothy potrebbero sembrare permeati da un certo horror vacui, ma in realtà ogni oggetto era pensato all’interno dello spazio, lo studio del colore, la presenza di ogni arredo, anche il numero di oggetti che una stanza doveva contenere per mantenere un equilibrio, senza mai eccedere, senza cadere nel “troppo“; curava i dettagli, e  il risultato era una eleganza senza eccessi.

Lavorerà a numerosi alberghi come l’Hotel Hampshire House o il Fairmont Hotel, ma anche a numerose residenze private. Nonostante la sua fama, solo nel 2006 il Museum of the city di New York, le dedica una personale dal titolo “The High Style of Dorothy Draper” conferendole l’attenzione da sempre meritata.

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